martedì 27 dicembre 2011

Tino, gli Anni Settanta, Torino, il destino, il bene e il male

Quando ho scritto “La primavera di Tino”, sul finire del 2006, i tempi non erano né più acerbi, né più maturi di questi per affrontare il nodo degli anni Settanta. Semplicemente, per via di misteriose coincidenze, certi periodi storici ritornano ad affacciarsi sulla scena culturale, cucinati e propinati dalle varie arti nelle essenze più variegate, per essere dati (o meglio restituiti) in pasto alla memoria collettiva.

E proprio qui è il punto, molti sono concordi nel ritenere che una memoria collettiva sugli Anni Settanta ancora non si sia formata, ossia un corpo di idee, di giudizi e di sentire capace di radunare una parte consistente della società civile attorno ad un caposaldo comune. Solo pochi giorni fa Maria Simonetti sull’Espresso rimarcava il proliferare di libri, saggi, documentari, film, mostre fotografiche che negli ultimi mesi ha caratterizzato la scena italiana, tutti aventi per sfondo o per oggetto esplicito i violenti, sfibranti, rivoluzionari Anni Settanta.

Come una briciola su un tavolo si poggia anche questa mia storia, la vicenda del piccolo Tino che con gli occhi velati di candore si sporge timidamente dalla portineria di uno stabile del centro di Torino per mettere a fuoco il mondo di fuori.

La Torino che gli si presenta agli occhi è una città strana, che pur conservando la sua secolare compostezza, è capace di esplodere in collere improvvise, accese ora dalle proteste studentesche, ora dalle rivolte di fabbrica, ora dalle azioni dei nuclei brigatisti. Quello che risulta più strano a chi come me è cresciuto in un’altra Torino, quella pacificata e gaudente degli anni Ottanta, è che il teatro di tutto questo fossero gli stessi quartieri, i viali alberati, gli ariosi palazzi liberty e le strade rettilinee che ai bambini venuti dopo apparivano come assonnati di un sonno secolare, come se nulla, né la guerra, né il ribollire degli anni Sessanta o l’incattivirsi dei Settanta, li avessero mai sfiorati.

Ecco, di qui il mio sforzo, il mio balzo mentale a ritroso, di immaginarmi bambino, nudo di pregiudizi e di cultura, ma anche svestito della protezione del calore materno, in pasto a quelle stesse strade, che erano capaci di nascondere pericoli e insidie ben più grandi delle “macchine, dei drogati o dei malintenzionati” da cui la madre mette in guarda il piccolo Tino.

Era dentro quella quiete apparente che si muovevano a loro agio i nuclei d’azione delle BR, quelle ombre che silenziosamente si aggirano intorno alla storia di Tino e dell’indocile Flavio. Di questo sono debitore a Vincenzo Tessandori, che nella sua opera “BR: imputazione banda armata” racconta il loro agire con minuziosa tensione. Tessandori li presenta come dissociati travestiti da borghesi, che prendevano spesso dimora nei quartieri centrali della città, quasi volessero osservare da vicino il nemico, tenerlo sotto controllo per anticiparne le mosse e colpirlo nel momento in cui questi era più debole. Pratiche precise e maniacali scandivano il loro vivere quotidiano, come quello di acquistare i generi di prima necessità sempre in negozi diversi, oppure di compiere autentici peripli in macchina prima di raggiungere la propria abitazione, per sincerarsi di non essere inseguiti.

Ecco, quando caliamo tutto questo nello scenario rassicurante della Torino sabauda e pedemontana, ci troviamo fra le mani un crogiolo dove l’ossimoro è esplosivo, dove il bene e il male coesistono fianco a fianco, pronti a prendere fuoco al primo attrito.

Tino, la sua laboriosa madre, il suo padre vittima di fiacche velleità rivoluzionarie, si pongono simbolicamente in disparte rispetto a questo scenario. Ne sono spettatori passivi, come se la storia passasse fuori sulle strade con tutta la sua luminosa violenza, e loro ne venissero appena colpiti di riflesso, perché non partecipi, perché marginali.

Ecco che il lettore diventa dopo poche pagine partecipe di questa impotenza, spettatore anch’egli di fronte all’ineluttabilità di un destino più grande, che fa il proprio corso a prescindere dalla volontà degli attori. Attraverso gli occhi del Tino narratore, al lettore non resta che guardare quegli anni con uno sguardo privo di filtri ideologici, con la sola lente dell’ingenuità, che sa a malapena discernere fra il male rosso e il male nero. Tutto quello che Tino riesce a percepire è l’irrimediabile forza del destino, che attanaglia la sua umile famiglia e ne azzoppa ripetutamente i tentativi di riscatto, il tutto mentre la storia fuori fa il suo corso, cieca e violenta, mietendo morti da una parte e dall’altra, senza che la ragione o il torto trovino una casa dove abitare.

Il tentativo di riconciliare il sacrificio dell’una e dell’altra parte, di coloro che difendono l’ordine democratico e di coloro che lo vogliono ribaltare, fatalmente non giunge a nessuna conclusione. Rimane sullo sfondo lo smarrimento di chi di quegli anni è stato muto testimone, Tino, la sua famiglia, i piccolo-borghesi del condominio. E anche il ribelle Flavio, che con il suo stesso gesto finale di scomparire nel nulla, sembra silenziosamente voler rigettare il misterioso mondo da cui proviene, lasciando che sia la storia a esprimere il suo postumo giudizio.

martedì 13 dicembre 2011

Attimi dalla presentazione di Catania

Libreria Voltapagina, sabato 10 dicembre 2011. La presentazione si  è svolta nel locale adiacente il negozio, una cappellina sconsacrata raccolta e suggestiva, ideale per un uditorio di venti-trenta persone. Di fronte, un cortiletto raccolto e protetto da una siepe, dove sotto i gazebo e sopra i tavolini abbiamo consumato l'aperitivo, gentilmente offerto da Francesca.

Grazie a Viana e alla sua sensibilità per la... "luce".

Grazie a Paoletta, Pina e Loredana, motrici e organizzatrici della serata.

Grazie a quelli che sono intervenuti e hanno acquistato il libro. Spero che la lettura li ripaghi.

E più in generale, grazie al calore di Catania, venuta a guardare con curiosità e indulgenza uno sconosciuto calato da un piccolo paese del Monferrato.

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martedì 22 novembre 2011

Tino e Alfio, i miei due piccoli, grandi eroi

Quando ho pensato al vecchio Alfio, l’ex partigiano che in un caldo maggio dell’anno Duemila sbuca con la valigia in mano dall’allea del paese, non ho potuto non pensare ai tanti che sessant’anni fa hanno lasciato la campagna monferrina per emigrare lontano. Alfio torna da un lungo viaggio, dalla rincorsa di una vita intera, per riaffacciarsi su un mondo immobile, serafico, pieno di ricordi contrastanti. Sui manifesti parati a lutto, all’imbocco del paese, il nome di Luigi, il fratello contadino scomparso pochi giorni prima. Un attimo dopo l’altro, un volto dopo l’altro, i nodi di una vita ritornano al pettine, il paese della memoria si fa presente, la famiglia di Luigi (che rappresenta tutto ciò che lega Alfio al suo passato) si materializza. Dapprima mostrando l’aspetto quieto e routinario che contraddistingue la vita su queste colline. Ma poi a poco a poco affiorano silenzi, tensioni, incomprensioni, trasgressioni. La vita del suo paese, che Alfio immaginava a torto essere esente dai vizi del mondo, si è corrotta, si è ammalata di noia e di benessere, cancro silenzioso che affligge tutta la modernità, non risparmiando la remota campagna monferrina.

Su questa spina dorsale si sviluppa “L’ultimo settembre”, uno dei due romanzi che compongono il volume “Canto per due stagioni”. Un testo venuto alla luce per volontà di un tenace editore cuneese, come me cresciuto a pane, Fenoglio e Pavese e sensibile alle tematiche della piemontesità, celebrata senza retorica, messa a nudo nelle sue luci e nelle sue ombre. “L’ultimo settembre” è la mia piccola “Luna e i falò”, c’è dentro quel che questa terra rappresenta per chi come me che la lascia e la ritrova di continuo e che in questi anni l’ha vista spogliarsi, rianimarsi, resistere, cambiare restando uguale. “L’ultimo settembre” è l’uomo che fa i conti con il suo passato, senza indulgenze e senza nostalgia, cercando di dare un senso alle stagioni vissute e di ritrovare un’appartenenza in un mondo sempre più impersonale e svuotato. E soprattutto cercando di trasmettere questo senso alla generazione presente, impersonata dal pronipote Diego, un ventenne annoiato e spento, privo di pretese e di ambizioni, coricato nel piatto benessere della provincia, cresciuto “nel rosso dell’uovo” di cui si nutre e che al tempo stesso disprezza. Per il vecchio Alfio, che ha sofferto la fame, il freddo, la miseria, che ha combattuto la guerra partigiana e infine è emigrato lavorando sulle navi, nei campi di cotone, nei cantieri del sud America, tutto questo non può essere concepibile. Alfio non si capacita di come il sacrificio della sua generazione per la conquista della libertà abbia prodotto un simile appiattimento, dove anche le trasgressioni, la normale esuberanza giovanile, si ammorbano di vuoto. Servirà una tragedia a scuotere il piano orizzontale delle cose e a istradare il vecchio Alfio e il giovane Diego in un cammino a ritroso, alla ricerca dei legami che li uniscono a questa terra.

Ma “Canto per due stagioni” contiene un’altra storia, “La primavera di Tino”, di epoca e ambientazione totalmente differente, che apre il volume. Qui siamo nella Torino degli anni Settanta, nel pieno degli anni di piombo, nelle vie del centro cittadino liberty, borghese e apparentemente compassato. La luce del racconto è puntata sulla portineria di un palazzo, dove vive Tino con la sua umile famiglia, la madre portinaia, il padre operaio. Tino è un ragazzino e il suo mondo sono i giardini, i marciapiedi agitati dai lampeggianti della polizia, dal brulichio degli studenti, dai volti sconosciuti del mondo adulto. Un mondo carico di tensioni, che Tino osserva incantato da dietro i veli dell’infanzia. Quando conosce Flavio, ragazzo vigoroso e indocile, la sua vita cresciuta al riparo della portineria si accende e ai suoi occhi appare una città diversa, tagliata dalle luci di una società violenta e inquieta. Flavio è il ribelle, figlio di genitori hippy e un po’ sregolati, una famiglia totalmente opposta a quella di Tino, tenuta assieme dall’umile laboriosità della madre. Ma i veli calati sulla sua infanzia sono destinati a lacerarsi. Correndo dietro Flavio, Tino scopre la scuola, gli scioperi, la contestazione giovanile, la musica ribelle, le piccole trasgressioni, il tutto mentre la quiete che ha tenuto assieme la sua famiglia esplode. Il presente carico di tensioni invade il petto di Tino, che a poco a poco getta via la pelle di bambino, ripudia le convenzioni e il perbenismo della civiltà “borghese” e arriva ad entrare in conflitto con la famiglia stessa, particolarmente con la madre, che dietro atteggiamenti servili cova per lui il sogno di un’impossibile ascesa sociale. Tino è fiero, esaltato da questa sua affermazione, ma non può fare a meno di soffrire il dolore che essa comporta, perché il cammino della crescita, la scoperta della violenza, dell’odio e infine del terrore brigatista lo violentano, lo asciugano fino ad manifestarsi nel finale del romanzo in un’agghiacciante verità.

 “Canto per due stagioni”, ha l’ambizione di disporre fianco a fianco due storie molto diverse, ma legate da un sottile filo comune. Non sono soltanto due stagioni della nostra storia recente, l’energia dirompente degli anni Settanta e il vuoto colorato del Duemila. Ho cercato di raccontare soprattutto due stagioni dell’anima. Quella in cui la smania di crescere, di capire il mondo, di liberarsi dai lacci dell’educazione e dal calore protettivo della famiglia si scatena e l’io bambino spicca il volo perdendo l’ingenuità e la purezza dell’animo. E la stagione del tramonto, l’autunno della vita, dove di fronte alle scadenze del tempo non resta che andare alla ricerca dei tempi candidi dell’infanzia, per riallacciare i nodi da cui si è dipanato il proprio cammino.

Questo è lo scenario in cui ho fatto muovere i miei due piccoli eroi, Tino e Alfio. Due avventurieri della normalità, che senza conoscersi né sfiorarsi fanno il loro percorso di andata e ritorno, in cerca di un equilibrio che dia un senso alle stagioni estreme della vita.

(Brano pubblicato sul mensile "Al pais d'Lu" di novembre 2011)

domenica 6 novembre 2011

In volo con l'Araba Fenice

L'incontro con Fabrizio è avvenuto nel luogo più impensabile. Ottobre 2010, Alba. Il primo banco alla sinistra entrando nel salone della Fiera del tartufo non è zeppo di trifole, ma di libri, ben disposti, profumati. Dietro c'è in piedi Fabrizio, un ragazzo magro e asciutto, con una barbetta ordinata e lo sguardo vispo. Il cartello alle sue spalle dice "Araba Fenice", un nome gonfio di evocazioni.

Noto subito fra i volumi una preziosa edizione della Malora, il capolavoro di Fenoglio, composta dai suoi originali dattlioscritti. La afferro a la mostro con orgoglio a Paoletta, come per asserire la mia piemontesità, a lei che è salita ad annusare il Piemonte dalla sua Sicilia. Lei non ci pensa su e me la regala.

Da cosa nasce cosa, cominciamo a chiacchierare con Fabrizio. Anch'io amo Fenoglio e Pavese, anch'io ho pubblicato qualcosa, anch'io ho qualcosa nel cassetto, degli scritti chiusi che profumano come tartufi e chiedono di vedere la luce.

Così è nata la pubblicazione di Canto per due stagioni. Gli anglosassoni la chiamano Serendipity, quando vai cercando qualcosa e trovi tutt'altro. Altri lo chiamano destino.

Io non so che nome dargli, ma certo la vita ama sorprenderti, specie quando non le dai più credito.


http://www.arabafenicelibri.it/