martedì 22 novembre 2011

Tino e Alfio, i miei due piccoli, grandi eroi

Quando ho pensato al vecchio Alfio, l’ex partigiano che in un caldo maggio dell’anno Duemila sbuca con la valigia in mano dall’allea del paese, non ho potuto non pensare ai tanti che sessant’anni fa hanno lasciato la campagna monferrina per emigrare lontano. Alfio torna da un lungo viaggio, dalla rincorsa di una vita intera, per riaffacciarsi su un mondo immobile, serafico, pieno di ricordi contrastanti. Sui manifesti parati a lutto, all’imbocco del paese, il nome di Luigi, il fratello contadino scomparso pochi giorni prima. Un attimo dopo l’altro, un volto dopo l’altro, i nodi di una vita ritornano al pettine, il paese della memoria si fa presente, la famiglia di Luigi (che rappresenta tutto ciò che lega Alfio al suo passato) si materializza. Dapprima mostrando l’aspetto quieto e routinario che contraddistingue la vita su queste colline. Ma poi a poco a poco affiorano silenzi, tensioni, incomprensioni, trasgressioni. La vita del suo paese, che Alfio immaginava a torto essere esente dai vizi del mondo, si è corrotta, si è ammalata di noia e di benessere, cancro silenzioso che affligge tutta la modernità, non risparmiando la remota campagna monferrina.

Su questa spina dorsale si sviluppa “L’ultimo settembre”, uno dei due romanzi che compongono il volume “Canto per due stagioni”. Un testo venuto alla luce per volontà di un tenace editore cuneese, come me cresciuto a pane, Fenoglio e Pavese e sensibile alle tematiche della piemontesità, celebrata senza retorica, messa a nudo nelle sue luci e nelle sue ombre. “L’ultimo settembre” è la mia piccola “Luna e i falò”, c’è dentro quel che questa terra rappresenta per chi come me che la lascia e la ritrova di continuo e che in questi anni l’ha vista spogliarsi, rianimarsi, resistere, cambiare restando uguale. “L’ultimo settembre” è l’uomo che fa i conti con il suo passato, senza indulgenze e senza nostalgia, cercando di dare un senso alle stagioni vissute e di ritrovare un’appartenenza in un mondo sempre più impersonale e svuotato. E soprattutto cercando di trasmettere questo senso alla generazione presente, impersonata dal pronipote Diego, un ventenne annoiato e spento, privo di pretese e di ambizioni, coricato nel piatto benessere della provincia, cresciuto “nel rosso dell’uovo” di cui si nutre e che al tempo stesso disprezza. Per il vecchio Alfio, che ha sofferto la fame, il freddo, la miseria, che ha combattuto la guerra partigiana e infine è emigrato lavorando sulle navi, nei campi di cotone, nei cantieri del sud America, tutto questo non può essere concepibile. Alfio non si capacita di come il sacrificio della sua generazione per la conquista della libertà abbia prodotto un simile appiattimento, dove anche le trasgressioni, la normale esuberanza giovanile, si ammorbano di vuoto. Servirà una tragedia a scuotere il piano orizzontale delle cose e a istradare il vecchio Alfio e il giovane Diego in un cammino a ritroso, alla ricerca dei legami che li uniscono a questa terra.

Ma “Canto per due stagioni” contiene un’altra storia, “La primavera di Tino”, di epoca e ambientazione totalmente differente, che apre il volume. Qui siamo nella Torino degli anni Settanta, nel pieno degli anni di piombo, nelle vie del centro cittadino liberty, borghese e apparentemente compassato. La luce del racconto è puntata sulla portineria di un palazzo, dove vive Tino con la sua umile famiglia, la madre portinaia, il padre operaio. Tino è un ragazzino e il suo mondo sono i giardini, i marciapiedi agitati dai lampeggianti della polizia, dal brulichio degli studenti, dai volti sconosciuti del mondo adulto. Un mondo carico di tensioni, che Tino osserva incantato da dietro i veli dell’infanzia. Quando conosce Flavio, ragazzo vigoroso e indocile, la sua vita cresciuta al riparo della portineria si accende e ai suoi occhi appare una città diversa, tagliata dalle luci di una società violenta e inquieta. Flavio è il ribelle, figlio di genitori hippy e un po’ sregolati, una famiglia totalmente opposta a quella di Tino, tenuta assieme dall’umile laboriosità della madre. Ma i veli calati sulla sua infanzia sono destinati a lacerarsi. Correndo dietro Flavio, Tino scopre la scuola, gli scioperi, la contestazione giovanile, la musica ribelle, le piccole trasgressioni, il tutto mentre la quiete che ha tenuto assieme la sua famiglia esplode. Il presente carico di tensioni invade il petto di Tino, che a poco a poco getta via la pelle di bambino, ripudia le convenzioni e il perbenismo della civiltà “borghese” e arriva ad entrare in conflitto con la famiglia stessa, particolarmente con la madre, che dietro atteggiamenti servili cova per lui il sogno di un’impossibile ascesa sociale. Tino è fiero, esaltato da questa sua affermazione, ma non può fare a meno di soffrire il dolore che essa comporta, perché il cammino della crescita, la scoperta della violenza, dell’odio e infine del terrore brigatista lo violentano, lo asciugano fino ad manifestarsi nel finale del romanzo in un’agghiacciante verità.

 “Canto per due stagioni”, ha l’ambizione di disporre fianco a fianco due storie molto diverse, ma legate da un sottile filo comune. Non sono soltanto due stagioni della nostra storia recente, l’energia dirompente degli anni Settanta e il vuoto colorato del Duemila. Ho cercato di raccontare soprattutto due stagioni dell’anima. Quella in cui la smania di crescere, di capire il mondo, di liberarsi dai lacci dell’educazione e dal calore protettivo della famiglia si scatena e l’io bambino spicca il volo perdendo l’ingenuità e la purezza dell’animo. E la stagione del tramonto, l’autunno della vita, dove di fronte alle scadenze del tempo non resta che andare alla ricerca dei tempi candidi dell’infanzia, per riallacciare i nodi da cui si è dipanato il proprio cammino.

Questo è lo scenario in cui ho fatto muovere i miei due piccoli eroi, Tino e Alfio. Due avventurieri della normalità, che senza conoscersi né sfiorarsi fanno il loro percorso di andata e ritorno, in cerca di un equilibrio che dia un senso alle stagioni estreme della vita.

(Brano pubblicato sul mensile "Al pais d'Lu" di novembre 2011)

domenica 6 novembre 2011

In volo con l'Araba Fenice

L'incontro con Fabrizio è avvenuto nel luogo più impensabile. Ottobre 2010, Alba. Il primo banco alla sinistra entrando nel salone della Fiera del tartufo non è zeppo di trifole, ma di libri, ben disposti, profumati. Dietro c'è in piedi Fabrizio, un ragazzo magro e asciutto, con una barbetta ordinata e lo sguardo vispo. Il cartello alle sue spalle dice "Araba Fenice", un nome gonfio di evocazioni.

Noto subito fra i volumi una preziosa edizione della Malora, il capolavoro di Fenoglio, composta dai suoi originali dattlioscritti. La afferro a la mostro con orgoglio a Paoletta, come per asserire la mia piemontesità, a lei che è salita ad annusare il Piemonte dalla sua Sicilia. Lei non ci pensa su e me la regala.

Da cosa nasce cosa, cominciamo a chiacchierare con Fabrizio. Anch'io amo Fenoglio e Pavese, anch'io ho pubblicato qualcosa, anch'io ho qualcosa nel cassetto, degli scritti chiusi che profumano come tartufi e chiedono di vedere la luce.

Così è nata la pubblicazione di Canto per due stagioni. Gli anglosassoni la chiamano Serendipity, quando vai cercando qualcosa e trovi tutt'altro. Altri lo chiamano destino.

Io non so che nome dargli, ma certo la vita ama sorprenderti, specie quando non le dai più credito.


http://www.arabafenicelibri.it/